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Riccardi, un "rivoluzionario" al governo

Il ministro Andrea Riccardi


A ogni cambio di governo un sottile frisson percorre l'opinione pubblica. È il brivido della previsione, il "toto-ministri". Ogni governo che si rispetti, puntualmente, nella sua ascesa al Colle, qualche sorpresa la riserva e le pedine che gli editorialisti avevano ordinatamente schierate non vanno mai perfettamente a posto. È accaduto, ovviamente, anche per il governo Monti. In particolare, smentendo più di un pronostico, è uscito dal cilindro un ministero del tutto nuovo. L'idea di un ministero per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione può essere giudicata in molti modi, ma è certo che rompe con parecchi cliché.

Intanto, segna una indubbia e profonda discontinuità con la tradizione politico-istituzionale del nostro Paese, allineandola a quella della gran parte dei paesi OCSE.

In secondo luogo, fondendo insieme l'ambito della cooperazione sui grandi scenari dello sviluppo internazionale e quello, interno, dell'integrazione di quelle "mobilità umane" - per citare Palidda - che entro tali scenari si spostano (o sono costrette a spostarsi...), sollecita una riflessione di segno nuovo sull'interdipendenza dei fenomeni in campo nel mondo contemporaneo.

Una discontinuità ancor più profonda è sembrata tuttavia operare nella scelta a un altro livello. Quello dell'individuazione del candidato: indicato stranamente dai media come "tecnico" per eccellenza in un governo "tecnico", Andrea Riccardi non sembra esserlo affatto. È professore di storia contemporanea, non feluca ministeriale. La sua biografia è trascorsa finora sotto un altro segno, completamente differente.

Riccardi è il protagonista di una piccola rivoluzione - di idee e di posture- specificamente italiana. Nel '68 ha fondato a Roma la Comunità di Sant'Egidio: in piena rivoluzione di idee e di posture, ha costruito un percorso parallelo, contribuendo a innovare radicalmente la visione del mondo e il modo di stare dentro quel mondo di molti cattolici post-conciliari. Unire insieme la cooperazione internazionale e l'integrazione in un unico assetto ministeriale può sembrare una innovazione radicale entro le logiche istituzionali; non lo è, da sempre, in Sant'Egidio, dove l'attenzione al Terzo Mondo e alle sue urgenze si è quotidianamente fusa nel percorrere palmo a palmo quartieri disagiati e stazioni ferroviarie, periferie e campi rom.

E' questa tradizione originalissima e unica di diplomazia popolare e riconoscimento dell'Altro ad aver varcato il portone del ministero. Questa cifra non potrà essere ignorata nella valutazione di quanto accadrà.

È chiaro che invertire quella tendenza che vede l'Italia fanalino di coda tra i Paesi donatori nelle emergenze internazionali non sarà impresa facile né immediata. Tuttavia il cambio di rotta è evidente.

È certo, comunque, che una cultura profondamente estranea alle logiche correnti della politique politiciénne segna già un cambiamento considerevole. Vogliamo credere, per esempio, che sia difficile che la cooperazione internazionale torni a essere oggetto di pura realpolitik, oggetto di contrattazioni negoziali legate a crude valutazioni geo-strategiche o economiche. Difficile che la questione dei migranti torni a essere pura questione di numeri e desiderabilità economiche o, peggio, di malpancismi da paese ricco. Difficile che torni a essere nuda materia da ministero degli Interni.

È una sfida che al nuovo ministro viene direttamente dalla propria biografia. È una sfida che, a tutti noi, viene direttamente dal nostro essere irriducibilmente e irrinunciabilmente "umani".

Lucio d'Alessandro

[1.2.2012 - 17:19]



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