Conti lascia
Cagliari, è stato la bandiera all'ombra
Dio non gli ha donato la classe di Del Piero, o il carisma di Maldini. E non gli ha dato la possibilità di giocare le partite casalinghe all'Anfield Road di Liverpool come Gerrard.
Ma per chi sta dalla parte dei più deboli, senza dubbio, la carriera di Daniele Conti (che domani saluterà il Cagliari senza giocare) è stata molto più speciale di quella della classica bandiera da grande squadra.
Già, perché è troppo semplice dedicare la propria vita a una squadra che vince sempre e ti riempie di milioni. È facile essere bandiera quando le televisioni non fanno altro che elogiare la tua fedeltà a quella maglia.
Offrire una carriera a una squadra in cui le delusioni saranno molte di più rispetto ai successi, invece, non è da tutti. Su fillu e Brunu (il figlio di Bruno, come lo battezzarono i tifosi al suo arrivo in Sardegna nel 1999) ha deciso di stare con i perdenti, con chi raramente ha il privilegio di vincere.
Conti è stato diverso perché ha scelto di diventare uno del popolo che lo ha adottato 16 anni fa. Ha tenuto alta la bandiera dei Quattro mori senza che nessuno glielo chiedesse e senza volere niente in cambio. Non diteglielo però: è convinto di aver ricevuto tanto, per lui l'amore quieto dei sardi è sufficiente.
Ma soprattutto si è rivolto a loro dicendo "io sono uno di voi". E, in questo caso, non ci sono aggettivi per descrivere l'orgoglio che possa provare un isolano nel sentire queste parole da un "continentale".
A differenza di altri colleghi più famosi, ha dovuto aspettare 15 anni per sentire i suoi tifosi cantare "c'è solo un capitano". E nonostante questo non se l'è presa, perché ha imparato ad accettare il loro modo di amare dei tifosi cagliaritani: prima i fatti, le ricompense arrivano poi. L'importante è sudarsi il rispetto. E Daniele lo ha fatto: quando ha gioito, quando si è arrabbiato e quando ha segnato per poi esplodere di gioia e correre come un bambino.
Lascerà i rossoblù dopo 434 battaglie in campo. Nessuno come lui. Lasciare la squadra con la retrocessione e senza la possibilità di poter giocare domani contro l'Udinese è ingiusto. Ma è il destino di chi ha scelto di vivere di difficoltà e rinunciare ai facili successi.
Si potrebbero ricordare i suoi gol alla Roma (papà Bruno ne sa qualcosa), o quello al 94' contro il Napoli che diede 3 punti fondamentali al Cagliari per la miracolosa salvezza del 2008. Al di là dei singoli episodi, Daniele ha dato tutto se stesso ogni volta che è sceso in campo. Anche quando ha giocato male, l'uomo non è mai mancato.
Il suo addio non sarà reclamizzato dalle televisioni. Perché ormai il calcio è questo: si ha il diritto di apparire solo se i grandi sponsor sono con te. E Cagliari, la sua squadra e la Sardegna, sono quanto di più lontano dai riflettori.
Il suo sarà un commiato all'ombra, come del resto lo è stata tutta la sua carriera, molto inferiore rispetto al valore del giocatore. Tanti cartellini gialli e mai una convocazione in Nazionale. Ma anche questo per lui non è stato un problema: "La mia Nazionale è il Cagliari", ha sempre detto.
Dovrà accontentarsi degli applausi dei pochi tifosi del Sant'Elia che andranno a salutarlo. Tanto lui ha imparato ad aspettarsi nulla. Sa che l'affetto dei suoi tifosi non è appariscente, e che comunque resterà il simbolo di una terra che lo ha accolto quando era su fillu e Brunu e dove è diventato uomo.
La sua maglia numero 5 dovrebbe essere ritirata come la 11 di Gigi Riva. In fondo entrambi hanno vissuto la propria vita per la stessa causa. E per gli isolani chi sceglie di diventare sardo, vale molto di più di chi lo è dalla nascita.
Lorenzo Ena
[30.5.2015 - 16:56]
© 2003/25 Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Napoli · P.Iva 03375800632 · Versione 4.2 · Privacy
Conforme agli standard XHTML 1.0 · CSS 3 · RSS 2.0