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a cura della Scuola di giornalismo Suor Orsola Benincasa
in convenzione con l'Ordine Nazionale dei Giornalisti

 
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Addio a Kobe Bryant

L'ultimo morso del Mamba


Anno 1996, 26 giugno, Rutherford, New Jersey. È il giorno del Draft NBA, le franchigie del campionato più bello del mondo sono lì a sperare in un sorteggio favorevole per portare a casa i giovani più promettenti. C'è tanto bel materiale quest'anno, la prima scelta sarà sicuramente Allen Iverson, un ragazzino assolutamente scostante e un po' attaccabrighe ma con un talento che gli ha concesso Dio in persona. Poi ce ne sono altri, un po' meno talentuosi ma ci si può accontentare. Ray Allen dal Connecticut e Steve Nash, un ragazzino canadese un po' nano, dalla South Carolina. Poi ce n'è ancora un altro, non impressionante, un po' magrolino ma con un buon talento, si chiama Kobe Bryant, ha 18 anni, non viene da un college ma dall'High School. Aveva iniziato a palleggiare in Italia, a Reggio Emilia, Reggio Calabria e Pistoia. Kobe viene scelto tredicesimo dagli Charlotte Hornets ma a Los Angeles, gente che aveva appena messo sotto contratto un certo Shaquille O'Neal, ci vedono lungo. Proprio l'arrivo di Shaq rende non più necessari i servigi di Vlade Divac (7 anni, 6500 punti in gialloviola), e allora lo scambio si fa. Il ragazzino per il centro jugoslavo che, dopo la tragica morte dell'amico/nemico di una vita Drazen Petrovic, non è più lo stesso. Quel Draft del '96 non è stato poi così male, tre dei quei quattro ragazzini, ora, sono nella Hall of Fame di questo sport ma uno, quello di cui stiamo celebrando la vita, ci entrerà il prossimo settembre.

L'esordio arriva il 3 novembre di quell'anno, 3 minuti abbastanza dimenticabili, al Target Center di Minneapolis contro i Timberwolves di Kevin Garnett. Kobe era il più giovane, fino ad allora, a calcare un parquet in NBA, 18 anni e 72 giorni. Da lì, un'ascesa costante. 20 anni di carriera, tutti con la casacca dei Lakers. Cinque titoli NBA, 2 ori olimpici con la nazionale americana, e una marea di titoli individuali. Kobe Bryant è quel ragazzo che nella sua partita di addio al basket, a Salt Lake City contro gli Utah Jazz, in 3 minuti e 10 ribaltò, da solo, il parziale di 94 a 84 chiudendo la partita 96 a 101 con 60 (sessanta!) punti segnati alla veneranda età di 38 anni.

A latere, nel tempo libero, così, un po' per giocare, Kobe ha vinto anche un Oscar. Nel 2016, dopo il suo ritiro, insieme a Glen Keane, tradusse in un cortometraggio di animazione (lo trovate su YouTube) la toccante lettera che scrisse al suo sport preferito: Dear Basketball.

Mi ci sono volute quasi 24 ore per riuscire a metabolizzare quello che è successo ieri su quella collina di Calabasas, nella contea di Los Angeles.

Kobe era uno di famiglia, un fratello più grande che ha accompagnato per moltissime notti quelli della mia generazione che hanno la passione per la palla a spicchi. Lo abbiamo visto muovere i primi passi contro MJ, trionfare (e litigare) con Shaq, cadere e rialzarsi con i Lakers, infortunarsi, vincere lo Slam Dunk contest, segnare 81 punti nella stessa partita, farne 33.643 totali e vincere persino l'Oscar.

E allora, il prossimo week end, tornerò a casa e guarderò il poster di Black Mamba appena sopra il mio pallone a spicchi della Spalding e qualche misera coppetta di provincia da ormai 15 anni, e ricorderò il motivo per cui ho iniziato a giocare. Perché, come diceva lui: "Non importa quanto segni, quello che conta è uscire dal campo felice". Poi prenderò quel pallone consumato, raccoglierò un po' di "Mamba mentality", chiamerò un paio di amici e andrò al campetto a fare due tiri. Non esiste modo migliore per ricordarlo se non facendo fare "Ciuff" alla retina.

Francesco Gucci

[27.1.2020 - 19:35]



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